· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Quali spazi nella Chiesa per le fedeli più piccole?

Dalla parte delle bambine

 Dalla parte  DCM-005
04 maggio 2024

Sedevano nella navata di destra, donne con il capo velato, foulard bianco per le nubili, nero per le sposate. Gli uomini a sinistra. È ormai difficile trovare chiese in cui ancora resiste la rigida distinzione maschi-femmine, in uso prima del Vaticano ii . Ma per una bambina, fino agli anni ‘60, andare a Messa in parrocchia, la domenica, significava assumere un messaggio, non verbale, di “posizionamento” nella comunità: appartieni all’altra metà, per te ci sono spazi preclusi e ruoli definiti. Nella Chiesa come nella vita. «Nel corso degli anni Settanta le donne si sono tolte il foulard e con il foulard anche il velo in chiesa», commenta Anna Scattigno, docente di Storia della Chiesa, femminista, membro della Società italiana delle Storiche. «Era il nuovo clima del Concilio e il femminismo. Una rivoluzione silenziosa ma decisa, dalla quale non si torna indietro». Oggi le ragazzine che servono durante la celebrazione eucaristica sono uno dei segni più evidenti del cammino fatto. Ancora molta strada, però, resta da fare.

Il Vangelo ha una “Buona notizia” per le bambine: il messaggio di Gesù è potenzialmente una sorgente di crescita, di valorizzazione, di piena maturazione dell’essere. Una scala con cui oltrepassare i muri – in termini di meccanismi sociali discriminatori o relazioni disfunzionali – che si troveranno di fronte nella loro vita di donne. Spesso, però, l’insegnamento impartito in parrocchia, nelle associazioni cattoliche, nell’ora di religione, va in direzione opposta, finendo per rafforzare stereotipi e puntellare il senso di inferiorità rispetto al maschile dominante. In effetti, a fronte di uno straordinario impegno per la promozione delle bambine nelle aree del Sud del mondo dove i diritti sono gravemente limitati, non c’è una riflessione approfondita sulla loro “soggettività sessuata”. Ovvero su come l’identità femminile delle piccole – plasmata dalle molteplici interazioni e condizionamenti con cui vengono a contatto fin dalla più tenera età in ambito familiare e sociale – influisce nel modo di relazionarsi con la fede e con Dio. Le comunità ecclesiali non sembrano ancora essersi poste con forza sufficiente la domanda: quale posto dobbiamo dare alle bambine? L’interrogativo, come spiega Rita Torti, del consiglio di presidenza del Coordinamento teologhe italiane e esperta di studi di genere, ne sottende un altro, cruciale: che donne vorremmo che diventassero queste bambine (e, correlativamente, questi bambini)? «Da come rispondiamo scaturiscono idee e pratiche educative e di trasmissione della fede ma innanzitutto scaturisce la verità su noi stesse e noi stessi. Ovvero: qual è la nostra idea di donna (e, correlativamente, di uomo)?».

La primavera del Concilio


Il Vaticano II ha segnato uno spartiacque anche nell’educazione alla fede dei più piccoli. Lo spazio sacro si è aperto, sono arrivate le chierichette. I rami delle aggregazioni ecclesiali si sono uniti, per un’educazione paritaria. Soprattutto i bambini e le bambine sono diventati non destinatari ma soggetti. Come dice Annamaria Bongio, responsabile nazionale dell’Azione cattolica dei ragazzi: «Non sono la Chiesa del futuro ma protagonisti nell’oggi, c’è già una pienezza, sono persone, cittadini, cristiani ora nel presente seppure in fieri». La branca dei più giovani dell’Azione cattolica è nata a ridosso del Concilio con uno statuto che valorizzava come «tutti i laici e i bambini compresi potevano mettere in gioco la loro corresponsabilità». Vittorio Bachelet, l’allora presidente nazionale, è stato il padre dell’Azione Cattolica dei Ragazzi , il ramo che ha unito le aspiranti, le beniamine, le piccolissime e gli angioletti, le più piccole della Gioventù femminile (Gf) creata nel 1918 da Armida Barelli, con i gruppi maschili. Già la fondazione di Gf aveva rappresentato un fatto nuovo: le iscritte erano invitate a uscire di casa e a impegnarsi nell’azione, rompendo i recinti a cui la cultura le aveva assoggettate. «La madre e sposa cristiana recepita dalla tradizione ottocentesca era proposta a modello della militanza femminile cattolica ma le forme della militanza inducevano un uso duttile del modello», conclude Scattigno. Analoga ambivalenza emerge dai contenuti della stampa per le giovanissime, esplosa in quegli anni. Tra le pubblicazione-pioniere gli Squilli di Risurrezione, promossi da Barelli e divisi per le varie fasce di età. Dopo trent’anni le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno dato vita a Primavera, rivista per giovanette e nel ’55 è arrivato Così, edito dalle Figlie di san Paolo. «La formazione delle “giovinette” diveniva cruciale in quanto future madri e quindi educatrici “in potenza” dei cittadini di domani, ma anche “agenti segreti” all’interno delle famiglie in grado di riportare alla fede e alla retta via fratelli e padri eventualmente smarritisi. Proprio per questo motivo, la Chiesa riponeva fiducia nelle potenzialità delle donne», spiega Ilaria Mattioni, docente presso la facoltà di Filosofia e Scienze dell'educazione di Torino. Merita una menzione speciale Il Giornalino, edito dalla Pia Società San Paolo dal 1924, che ha fatto da subito la scelta di rivolgersi a bambine e bambini indistintamente, anticipando, in qualche modo, l’altra grande novità del post Concilio: la coeducazione.

La sfida di un “insieme” che non diventi unisex


«Sarebbe ingiusto formare le donne in modo diverso dagli uomini secondo un approccio ideologico previo, naturale, una sorta di destino», afferma Emilia Palladino, docente della Facoltà scienze sociali alla Gregoriana. «È giusto educarle in modo che poi sappiano scegliere chi sono, non chi vogliamo che siano. Di fatto predando la loro identità e incommensurabile ricchezza». Secondo il teologo Andrea Grillo, autore de L’accesso delle donne al ministero ordinato. Il diaconato femminile come problema sistematico (San Paolo), «nel momento in cui si propone una visione “essenzialistica” della donna e la si proietta da un lato su Maria come “mamma tutta bella”, dall’altro sulla vocazione verginale di ogni ragazza, con una duplice riduzione “privata” sia della maternità sia della verginità, allora è chiaro che l’immaginario ecclesiale proietta sulla “donna” e su “ogni donna” un progetto di vita e un modello di comportamento che tende a confermare lo stereotipo per cui il maschio appartiene a Dio, ma la donna appartiene ad “un” maschio. Non può emanciparsi perché per natura è serva. Servire è una cosa nobile, ma quando lo scegli. Se te la appioppano per “natura”, hai ragione di dubitarne».

È, indubbio, dunque, che la fine dell’educazione separata tra maschi e femmine nelle associazioni, al catechismo, nella gran parte delle scuole cattoliche, concepita in genere in un’ottica difensiva, sia stato un passo avanti importante. Una sorta di condizione necessaria ma non sufficiente per l’emancipazione delle bambine in accordo col messaggio liberante del Vangelo. Perché a volte nei gruppi – in cui maschi e femmine stanno fianco a fianco – si trasmette una fede genericamente “neutra”, un finto unisex dietro cui si nasconde un modello sostanzialmente maschile.

«Partiamo da un esempio apparentemente banale. Nonostante il catechismo della Chiesa cattolica affermi che Dio “non è né uomo né donna” noi diciamo “Dio è buono, Dio è amico, Dio è vicino …”. Questo linguaggio produce una rappresentazione mentale di Dio come maschio. Quindi, anche senza dirlo apertamente, induciamo nei bambini l’idea di essere dello stesso genere di Dio e nelle bambine quella che Dio non somiglia a loro. Questo attiva due percorsi di fede molto diversi», spiega Torti, che è autrice del libro Mamma, perché Dio è maschio? (Effatà). I maschi, al contrario delle femmine, non fanno immediatamente i conti con l’alterità divina. «Nei bambini, l’immagine di un Dio maschile conferma il loro ruolo dominante. Un’illusione di onnipotenza che pagheranno a caro prezzo, con l’ansia perpetua da prestazione e la difficoltà di accettare perdite, sconfitte, abbandoni. Per le bambine, invece, il fatto di non avere la possibilità di rispecchiarsi nel volto di Dio costituisce una mancanza che inevitabilmente condiziona la percezione del proprio valore e le priva di una risorsa fondamentale per contrastare lo sguardo svalutante con cui dovranno fare i conti». Proprio l’educazione alla reciprocità è la chiave per contrastare l’emarginazione e la violenza. «E va fatto fin dalla primissima infanzia. È necessario aiutare i bambini a relazionarsi nel rispetto della differenza altrui. Ma noi adulti per primi dobbiamo farne esperienza – sottolinea suor Mara Borsi, responsabile dell’area pedagogico-didattica dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bologna -. Il rapporto con la differenza, invece, è ancora un nervo scoperto. Per questo lo evitiamo».

La pedagogista Paola Bignardi, collaboratrice dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, parla di «cultura dell’indistinto» che si sostanzia in un’educazione standard, poco attenta alle esigenze della persona specifica, caratteristiche di genere incluse. La mancata considerazione, durante l’infanzia, di uno specifico femminile nel modo di vivere la fede e la spiritualità fa sì che nell’adolescenza, quando la differenza si fa più marcata, le ragazze fatichino a trovare una collocazione nella Chiesa, concepita come essenzialmente maschile. «Nell’età cerniera, dunque, fra i 16 e i 17 anni, tante abbandonano con un’intensità maggiore dei coetanei maschi – afferma Bignardi, autrice di Dio dove sei? e Cerco, dunque, credo? (entrambi Vita e pensiero) -. Le giovani che si autodefiniscono cattoliche sono il 33 per cento, nel 2013 erano il 61,2 per cento. In dieci anni, la quota di quante si ritengono atee è passata dal 13 al 30 per cento».

Dalla parte delle bambine


Fin dalla costituzione, nel 1974, l’Associazione guide e scout cattolici d’Italia (Agesci) ha declinato in modo originale la tensione tra uguaglianza e differenza. La scelta della coeducazione fin dall’infanzia – intesa, come spiega lo statuto, come «cammino di crescita che, partendo dall’identità dell’essere uomo e donna, conduca alla scoperta e alla conoscenza dell’altro» – è stata abbinata a quella della leadership diarchica. «I gruppi, dalle coccinelle al reparto, hanno sempre una guida duale, formata da una donna e un uomo che si occupano insieme della loro formazione. L’idea è quella di proporre a bambini e ragazzi, sin dalla prima infanzia, un modello di autorità caratterizzato da una relazione collaborativa maschio-femmina – racconta la presidente, Roberta Vincini – nell’ottica di un’educazione all’accoglienza e al rispetto della diversità a partire dall’ascolto del singolo bambino o bambina».

Ascolto e attenzione personalizzata è anche il punto di partenza suggerito da Bignardi per costruire una formazione alla vita e alle fede che risponda davvero alle attese delle bambine. Il cammino prosegue facendo spazio nelle comunità ecclesiali, dice Torti «all’immagine che una bambina, confermando il bisogno di rispecchiamento, ha spontaneamente disegnato e descritto durante un laboratorio, “Dio con la gonna”. Ma Dio si rivela a noi nella sua Parola, e allora è fondamentale narrare questa Parola restituendole ciò che nel corso di molti secoli – e molto spesso anche oggi – è stato messo in ombra o distorto. Nella Bibbia nonostante si tratti di testi sorti in tempi lontanissimi, ci sono figure femminili che giocano una funzione narrativa e teologica fondamentale (le matriarche, le profetesse e altre donne del Primo Testamento, e poi nel Nuovo Testamento le discepole e le donne incontrate da Gesù, le protagoniste di alcune parabole e le donne delle prime comunità cristiane). Non si tratta di fare una “Bibbia per le ragazze” bensì di narrare nella sua integralità una storia in cui Dio si rivela a donne e uomini e agisce nelle pieghe delle vite femminili al pari di quelle maschili; e in cui Gesù non chiede mai alle donne di “starsene al loro posto”». Perchè Dio sta anche dalla parte delle bambine.

di Lucia Capuzzi*
e Vittoria Prisciandaro**
*Giornalista «Avvenire»
**Giornalista «Credere» e «Jesus», Periodici San Paolo